Resilienza e fragilità

Il Punto di Paola - Lugano, 17 marzo 2024, 11:29

Oggi la parola “resilienza” è tanto utilizzata (e spesso anche in modo improprio) da essermi diventata un po’ antipatica.
Prima che la psicologia se ne appropriasse, era semplicemente un termine tecnico che indicava una proprietà meccanica dei materiali: la capacità di resistere a urti, ovvero di assorbire energia e modificarsi senza rompersi.

Analogamente, una persona è definita resiliente quando, immersa in circostanze avverse, nonostante le ripetute sollecitazioni negative, riesce comunque a fronteggiare efficacemente le contrarietà e a volte, contro ogni aspettativa, raggiunge i suoi obiettivi.

Quanti ne abbiamo conosciuti di ragazzi fatti così, tra i nostri studenti!

Ragazzi che affrontano quotidianamente la frustrazione di un ambiente che non riconosce il loro valore e il loro impegno, che mette invece costantemente in evidenza i loro punti deboli. Ragazzi che vengono accusati di non aver studiato abbastanza, quando hanno dedicato molto del loro tempo allo studio, che sono considerati svogliati, distratti, sempre apostrofati dagli insegnanti e spesso anche sgridati dai genitori. Molti di loro sviluppano una capacità superiore alla media di assorbire gli urti, di modificarsi per adattarsi alle circostanze, senza spezzarsi. Questi giovani sono quelli che ce la faranno: troveranno la loro strada e poi si dirà che anche i dislessici, i discalculici o le persone con ADHD possono diventare professionisti di successo, ricercatori, artisti.

Ma cosa succede ai materiali con bassa resilienza? Sono materiali fragili, come il vetro, che reagiscono all’urto non con deformazioni plastiche ma con la rottura.

Molti adulti sono convinti che, per stimolare i ragazzi, sia necessario sottoporli a prove di resilienza. Ma, se vogliamo rimanere nella metafora, in meccanica le prove di resilienza sono prove distruttive e, come esistono i materiali fragili, esistono anche i ragazzi fragili, che rischiano di spezzarsi.